IL FINE E I MEZZI DELLO YOGA

Cito qui parzialmente il pensiero di un amico e collega (Alberto Stipo), rivisitato in parte da alcune mie riflessioni:

“Il termine yoga deriva dalla radice sanscrita “YUJ”,  significa “UNIONE”, ma anche “GIOGO”.
Il primo significato si riferisce al fine dello yoga, il secondo ai mezzi per realizzarlo.
Per evitare equivoci, bisogna tener presente che il fine dello yoga è uno solo, i mezzi sono innumerevoli.

Il fine dello yoga è il “samâdhi”, la realizzazione spirituale, la realizzazione esperienziale del Sè.
Integrazione – comprensione – fusione – unione dei vari aspetti della personalità – armonizzazione di corpo, mente e anima – Jivatman e Paramatman”.

Per integrazione, si intende l’armonico funzionamento di tutti gli aspetti o parti della personalità, sia fra loro che rispetto alle leggi della vita universale.
Per personalità si deve intendere l’essere umano nella sua totalità: essa è composta di varie parti, le più importanti delle quali sono tre: fisica, mentale e spirituale.
Fra queste, altre parti possono essere considerate: intellettuale, sociale, emozionale, morale.
Secondo lo yoga, la personalità è un tutto, che non può esistere senza parti; queste ultime non hanno senso se non in funzione del tutto, e pertanto devono essere unite fra loro, ciascuna al giusto posto, e governate propriamente, cioè “integrate”.


Attraverso i mezzi dello yoga, per successive approssimazioni ed esperienze si compie l’integrazione della personalità.
Ad ogni progresso corrisponde l’intima esperienza di una maggiore felicità e libertà, che costituiscono, quindi, il grado di integrazione raggiunto.
Il contrario, cioè il dolore e la schiavitù, è segno e misura della dis-integrazione della personalità e di “avidya” o ignoranza della nostra vera natura.

Secondo lo yoga, tutti sono dis-integrati, in misura diversa, e quindi proporzionalmente infelici e limitati.
La nostra dis-integrazione può avere innumerevoli cause, ereditarie o acquisite, ma esse rientrano tutte in cinque classi principali, note col nome di klesha o afflizioni (Patanjali – Yoga Sutra II,3):

avidyâ o ignoranza della vera natura del Sé;

asmitâ o identificazione del Sé con uno dei suoi strumenti;

râga o attrazione che si accompagna al piacere;

dvesha o repulsione che si accompagna al disgusto;

abhinivesha o attaccamento istintivo alla vita.

Possiamo tradurre la parola klesha con “fattori di disturbo”, che fanno dis- integrare l’armonioso tutto della personalità.
Via via che i klesha si attenuano e la personalità si integra, il dolore esistenziale cede il posto alla felicità.
Un requisito, però, è essenziale: la pratica costante (abhyâsa), e questa è resa possibile solo da una forte motivazione.

Non si può attingere alla vera felicità attraverso la soddisfazione dei desideri, che sempre si rinnovano, ma soltanto attraverso l’eliminazione progressiva degli attaccamenti, dell’identificazione con i nostri limiti e con il mondo esterno, la vera felicità deriva dal governare se stessi.

La realizzazione progressiva della nostra vera natura: SAT (Essenza) – CHIT (Coscienza) – ANANDA (Beatitudine).


Questo “percorso” può avvenire, attraverso lo Yoga (nelle sue declinazioni), la Spiritualità profonda e coerente, il Servizio altruistico e disinteressato (che agisce come potentissimo “scioglimento” dell’Ego…).

Nel corso dell’evoluzione dello yoga, infatti, tutte le vie al samâdhi vennero tentate: col tempo ci si accorse che non una soltanto portava al successo, ma molte altre vie potevano essere altrettanto valide, essendo una questione dipendente dall’attitudine individuale, dall’inclinazione naturale di ognuno di noi.

Ne deriva il principio dello yoga, che possiamo così enunciare: “la personalità è un tutto, o meglio un continuo: l’aspetto spirituale non è ‘diverso’ da quello fisico o da quello mentale, ma è l’estensione di quegli aspetti. Pertanto, toccando anche uno solo degli aspetti, si tocca tutta la personalità”.

Un processo di tipo fisico possa portare dei cambiamenti nella mente o allo sviluppo spirituale (Fisica Quantistica…).
Pertanto, si può praticare lo yoga a livello fisico o a livello mentale, si possono combinare le pratiche fisiche con quelle mentali, ci si può abbandonare all’Amore divino… e prima o poi si finisce per incrociare tutti gli altri aspetti della personalità.


Così ad esempio Yama e Niyama è un aspetto composto da 10 regole di vita.
I kriyâ o “processi di purificazione”, comprendono tecniche che a loro volta si ramificano in varianti e sottotecniche.
La meditazione, oltre ai processi meditativi “puri” (pratyâhâra, dhâranâ, dhyâna), ne comprende degli altri di tipo mistico: la meditazione sui suoni o sulle sillabe sacre, la meditazione sulla Divinità, quella sulla retta azione, quella sulla gnosi intuitiva, e le specializzazioni e le combinazioni di queste.


Nel corso dei secoli, si sono sviluppate così le varie “vie” (hatha, râja, kriyâ, tantra, laya, mantra, bhakti, jnâna, karma, ecc.), tutte tendenti all’unico fine, ma ciascuna caratterizzata da un insieme di mezzi diversi, dove l’una oppure l’altro aspetto veniva enfatizzato.

C’è un modo di praticare lo yoga per ognuno: adattare le pratiche alle caratteristiche individuali è il secondo grande principio dello yoga.


Il modo di vita proposto dallo yoga richiede dunque di “controllare se stessi” in modo da realizzare il proprio “DHARMA” (Dovere – Scopo della Vita – Destino).
Ciò può non essere facile, ma lo yoga fornisce a ciascuno i mezzi per farlo: i principi dello yoga si possono applicare in ogni circostanza della vita.


Maddalena Caccamo Bertolino